Prodotti Tipici

La ciliegia Arecca prende il nome dalla collinetta maranese dove l’albero cresce fin dal sedicesimo secolo. Il mese dell’Arecca, la tipica ciliegia di Marano che ha un colore rosa-pallido ed un frutto duro, carnoso e bianco, è Giugno. Un tempo, un vero esercito di muli faceva la spola tra la collinetta della Arecca ed i loro depositi, dove decine di operaie, per tutto il mese di giugno, avevano la certezza del lavoro. Il prodotto, diviso per qualità, era sistemato nelle “Varriate”, ceste rettangolari che potevano contenere fino a venti chili di ciliegie. Poi vennero altre ceste più pratiche, chiamate “Cerasare”, anch’esse rettangolari e da quindici chili netti. Il “cestino” era usato per regalare le primizie alla propria fidanzata. Per salire sull’albero di ciliegio, che può raggiungere anche i venti metri di altezza, si usa ancora oggi lo “scalillo”. Una scala lunga e stretta,formata da un minimo di dieci ed un massimo di trenta scalini distanti tra loro cinquanta centimetri. Ogni piolo è largo trenta centimetri e presenta al centro un’intaccatura nella quale il raccoglitore, appoggiando il ginocchio, resta libero di usare entrambe le mani senza perdere l’equilibrio. Si racconta che l’albero fu importato dall’amante del re di Spagna, Caterina Manriquez, quando fu cacciata da Madrid a seguito della scoperta della sua tresca, ad opera della regina, e fu spedita a Marano col titolo di principessa. Ella, per ricordarsi della sua terra, portò con sè una dozzina di alberelli di ciliegio.

 

Un tempo i piselli Santa Croce, dal nome della località che domina la conca di Quarto, assieme alle ciliegie della Recca, erano il prodotto tipico di Marano. Oggi, si vedono solo su qualche fazzoletto di terra, che degradando dalla collinetta della Recca, scende fino a Castello Monteleone. Ricercatissimi per la forma ultrafine e per il sapore dolcissimo, precocissimi invadevano i mercati di tutta l’Italia fino al giorno di San Giuseppe e sparivano quando le altre qualità non erano ancora giunte a maturazione.Era il tempo in cui a Marano più della metà dei suoi ventiseimila ettari di terreno era seminata a piselli, l’oro “verde” che produceva ricchezza fino alla metà di marzo.Si racconta che i migliori in assoluto erano quelli di C.C. il cui segreto consisteva nel seminare i Santa Croce tra le piante di una particolare qualità di prugne bianche che solo lui aveva. A partire dagli anni Sessanta la certezza economica dei contadini di Marano, fu distrutta dalle industrie che monopolizzarono l’intero prodotto maranese.

Marano vanta una tradizione artigianale molto antica e sentita. L’industria delle ceste, soprattutto, contribuì alla nascita delle prime “Società operaie” di mutuo soccorso o dei sindacati degli sportellai. Il lavoro era a conduzione familiare ed ognuno concorreva, con una precisa distribuzione dei ruoli, alla realizzazione di manufatti assai diversificati. C’erano i “panari”, le “connole”, le “spaselle”, le sporte “vastase”, quelle per il pane, per i fiori, per i meloni, gli “sportoni”, i “cuperchi”, le “terzarole”, i “soprassari”, i “cunnulilli” ed i “forni”, panari chiusi fin sopra. Ognuno di questi oggetti per anni aveva la sua collocazione specifica, pur se le loro sfumature oggi sfuggono. Le terzarole, ad esempio, che erano quadrate e con coperchio, erano utilizzate per l’ invio di ricotta fresca in Sardegna! E’ molto interessante soffermarsi sugli oggetti usati per la costruzione delle ceste. C’era il cippo, il coltellaccio da “incurriare”, quello da menare e quello da intrufolare. C’era inoltre, il tavolo da ordere, la raspa, lo scanno e vari campioni detti misure. Sono questi nomi dialettali a rendere affascinante l’intero ciclo di lavorazione; ci si rende conto di che cosa significava realmente l’azione dello sfogliare, striscia dopo striscia, un fusto di castago precedentemente infornato per ammorbidirlo. Tale azione veniva fatta con i denti incisivi e la caduta di tali denti era anche il primo prezzo che inevitabilmente si era costretti a pagare. Ma c’era anche l’avordere, il passà o virmulo, il menà, il tusà è capizze, passà o chirchio, incurrià, ‘ntrufilà, per concludere finalmente, con l’alliscià è varre. E’ inutile e limitativo tentare di tradurre tali modi di dire che per secoli furono il rosario laico dei maranesi. Altra particolarità: il mulino per la lavorazione del grano, e a Marano ce n’era più di uno. Il più importante forse era alimentato dalle acque che scendevano dalla cupa Cantarelle, attraversavano via Ferrigno, via Parrocchia e l’attuale Corso Vittorio Emanuele, fino al palazzo Baronale dove era ubicato il mulino del Principe, composto da due grosse pietre in granito.